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"Monjirō samurai solitario" (2) di Ichikawa Kon

L'avvento di questo telefilm  nel panorama dei "jidaigeki" fu notevole. Diretto da Ichikawa, "Kogarashi Monjirō" ("Monjirō samurai solitario") apparve per la prima volta in televisione nel gennaio del 1972.  Va sottolineato che, durante quello spicchio di Era Shōwa, nacquero molti altri eroi del genere che lasciarono il segno: "Kurama Tengu", "Mitokōmon", "Zatōichi" e "Zenigata Heiji", tanto per nominarne alcuni. Le previsioni erano dunque che "Kogarashi Monjirō", il classico underdog, avrebbe dovuto sgomitare per ritagliarsi uno spicchio di notorietà. Invece andò in tutt'altra maniera.

Il "jidaigeki" è un genere che si riferisce a film, serie televisive, o opere teatrali ambientati nel periodo storico che va approssimativamente dal 1603 al 1868, coprendo tutto il periodo Edo. Questo genere si concentra spesso sulle storie di samurai, ninja, rōnin e altri personaggi legati alla classe guerriera o al mondo feudale. I "jidaigeki" possono variare in tono, coprendo una vasta gamma di generi, dalla dramma storico alla commedia, all'azione, all'orrore e persino alla fantasia, tutti lavori che spesso riflettono i valori, le tradizioni e i conflitti sociali di quel periodo storico.



Nel mainstream del "jidaigeki" di allora lo standard che riguardava i "matatabimono", cioè il genere del giocatore d'azzardo errante, erano incentrati su un vagabondo con un forte senso del dovere e dotato di grande umanità. Sconfitti uno dopo l'altro i malfattori locali e i funzionari corrotti della zona, il protagonista salvava la brava gente e ripartiva verso una nuova meta. Invece, lo stile nichilista di "Kogarashi Monjirō" rigettò completamente quello standard, nel senso che in questo caso, il personaggio principale evitava il più possibile le relazioni con gli altri e vivacchiava in solitudine.

L'aspetto freddo e accattivante dell'attore protagonista, Nakamura Atsuo, risultò un elemento perfetto per rappresentare le idee covate dai giovani sceneggiatori. Ogni storia è un episodio autoconclusivo e non c'è continuità. Il personaggio principale è solo lui, Monjirō, non ci sono spalle ricorrenti che lo affiancano nel corso della serie.



Le aspettative e l'inizio tribolato 

Intorno alla primavera del 1971, su richiesta di Ichikawa, che aveva deciso di supervisionare e dirigere la serie, venne affidata la produzione di "Kogarashi Monjirō" a una ditta in odore di bancarotta. I preparativi per la produzione partirono comunque e venne deciso il cast. Stando alle intenzioni del regista, il ruolo di Monjirō sarebbe dovuto toccare a un nuovo arrivato. Venne così scelto l'attore Nakamura Atsuo, giovane di talento ma semisconosciuto.

Ichikawa, inoltre, incoraggiò il giovane e volenteroso staff, un manipolo di ventenni e trentenni entusiasti, esortandolo, parole testuali, "ad agire liberamente e senza vincoli", infischiandosene cioè dei cliché e delle regole del panorama cinematografico dell'epoca. 

Un esempio: per risaltare la sensazione di tessuto malridotto e sporco, di indumenti esposti al vento, alla pioggia, alla terra o alla sabbia, lo staff si accanì sui costumi nuovi di Monjirō & company imbrattandoli di fango e strofinandoli con delle pietre per sgualcirli il giusto. Fu uno degli espedienti realistici che decretarono la fortuna del telefilm.

A un certo punto il rubinetto dei finanziamenti si chiuse, i debitori si fecero avanti e la ditta fallì nel novembre 1971, dopo che i primi due episodi erano già stati girati. A causa del sequestro dello studio da parte del curatore fallimentare, la produzione rischiava seriamente di essere interrotta. Il personale continuò tuttavia a lavorare dall'alba a notte fonda senza essere pagato dalla società fallita. 

"Per favore, lasciateci lavorare fino al completamento di un altro paio di episodi, è tutto ciò che rimane della nostra attività!" Furono le parole testuali del responsabile di produzione quando si appellò al curatore fallimentare. Questi, impietosito, decise di rinviare di un mese il sequestro dello studio. Quei trenta giorni furono decisivi per mantenere in vita la serie, perché, nel frattempo, il colosso Toei si era offerto di ospitare la produzione presso uno dei propri studi a noleggio.

Mostrare il sangue in televisione era altamente sconsigliato e i dirigenti del canale televisivo Fuji, visionata l'anteprima, pensarono che la serie avrebbe sollevato un vespaio tra i benpensanti. In tutta risposta il regista Ichikawa, da sempre contrario a quella politica, diresse una scena d'azione raccapricciante già dal primo episodio. 

"A parte il sangue, le sequenze sono meravigliose" mormorò un dirigente incredulo al termine dell'anteprima, "il modo in cui combattono, i costumi e persino il cibo che mangiano... Sembrano tutti ritratti con un realismo che si adatta perfettamente alla società dell'epoca, degli emarginati e della yakuza... è un tipo di narrazione non perde un colpo dall'inizio e alla fine del telefilm!".

Fu così che il programma debuttò sugli schermi il primo gennaio 1972. Ciliegina sulla torta, la sigla "Dare ka kaze no naka de (Qualcuno nel vento)" composta da Wada Natto, moglie e sceneggiatrice di Ichikawa, divenne uno dei più grandi successi di quell'anno.



Il primo episodio

Nel prologo del primo episodio che precede la sigla d'apertura, durante una rapina a una bisca, gli yakuza locali gli chiedono aiuto per bloccare i responsabili ma Monjirō, che si trova lì per caso, li ignora. "Asshi wa, mendōna koto ni wa kakawari o mochitakunēnde sā. (Non voglio essere coinvolto in faccende problematiche)" risponde loro, allontanandosi.  

Fu la prima apparizione televisiva della frase simbolo di "Kogarashi Monjirō" che di lì a poco divenne un tormentone. Tuttavia, se nel romanzo era riportata in un dialetto del nord, nella versione televisiva venne leggermente modificata in un giapponese più masticabile. Dopodiché uno degli yakuza esclama "Ma quello è Kogarashi Monjirō!" e poi parte la sigla "Dare ka kaze no naka" con i vari credits della puntata.

Nonostante l'orario d'inizio fosse programmato in tarda serata, la prima stagione registrò un grande successo. Gran parte del merito andò anche al "tateshi", il maestro d'armi che aveva il compito di istruire gli attori nelle scene dei duelli. Nel senso che il "tateshi" scartò a priori gli eleganti combattimenti con la spada, irrinunciabile costante negli sceneggiati storici visti fino ad allora, preferendo degli scontri eterodossi e disordinati, eseguiti spesso di corsa. Nello stesso modo in cui, probabilmente, si sarebbero affrontati dei giocatori d'azzardo improvvisati spadaccini.

Infatti i "bakuto" (giocatori d'azzardo) utilizzavano delle spade anonime e soprattutto, a differenza dei samurai, non facevano la manutenzione periodica delle lame. Perciò, incrociando le lame e facendole cozzare l'una contro l'altra, il movimento classico che si vedeva negli sceneggiati d'epoca, nella realtà avrebbero rischiato di spezzare una lama arrugginita o di scarsa qualità. E i "bakuto" dell'epoca evitavano saggiamente di farlo.

Inoltre, non avendo imparato l'arte formale della spada, i giocatori d'azzardo colpivano in modo confuso, oscillando la lama con frenesia per non permettere all'avversario di avvicinarsi. Oppure si allungavano allo scopo di pungolarlo, colpendo di punta anziché portare un fendente di taglio come facevano gli esperti samurai.



Solo i samurai potevano dotarsi del "daishō" ("grande e piccola"), cioè le due spade, una "katana" lunga da impugnare anche a due mani e un "wakizashi", una spada più corta. Le due spade rappresentavano il loro potere sociale e il mezzo per la salvaguardia dell'onore personale e del loro signore. Sulle lame delle spade di proprietà dei samurai i fabbri incidevano il nome della spada, il luogo di residenza, l'anno di produzione, il proprio nome e quello, ovviamente, del proprietario.

Allora com'è che Monjirō e gli yakuza che bazzicavano il paese portavano tutti una spada? Perché, durante quel periodo, anche alla gente comune era consentito armarsi con un "wakizashi" di lunghezza stabilita, il che rese popolare la spada corta presso il grande pubblico. Possedere quest'arma divenne quasi una necessità perché alto era il rischio di incrociare dei banditi durante i trasferimenti da un villaggio all'altro. Il "wakizashi" aveva il vantaggio di essere un'arma leggera e maneggevole, semplice da utilizzare anche per chi non era avvezzo all'arte della spada.

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